
Jimmie Durham: humanity is not a completed project - Madre, Via Settembrini, 79 - Napoli
Mostra
in corso dal 23 dicembre 2022 al 10 aprile 2023
Il Madre presenta una retrospettiva di Jimmie Durham con la prima retrospettiva mai realizzata in Italia: oltre 150 opere in un percorso che intende
analizzare l’importanza del corpus dell’artista e restituire i nodi cruciali di una carriera che
si svolge attraverso definite linea di ricerca.
Comunicato stampa della Mostra Jimmie Durham: humanity is not a completed project
Ad un anno dalla scomparsa di Jimmie Durham (1940– 2021), la Campania rende omaggio
all’artista con la prima retrospettiva mai realizzata in Italia: il Madre, museo d’arte
contemporanea della Regione, presenta Jimmie Durham: humanity is not a completed
project, a cura di Kathryn Weir, che raccoglie oltre 150 opere in un percorso che intende
analizzare l’importanza del corpus dell’artista e restituire i nodi cruciali di una carriera che
si svolge attraverso definite linea di ricerca.
In mostra sono presenti lavori iconici, ricostruzioni di importanti mostre e installazioni,
alcuni in collaborazione con l’artista Maria Thereza Alves, e delle opere inedite, come ad
esempio Night Hawk, del 1954, God’s own drunks, 1974, oltre alla poesia Now, realizzata
in occasione della call to action promossa dal museo Madre nel 2020 durante il primo
confinamento per la pandemia in Italia.
Jimmie Durham: humanity is not a completed project si articola non solo nelle sale del
terzo piano del Madre: la voce di Durham risuona nelle scale, mentre alcune opere sono
installate al secondo piano e al piano terra, tra cui Presepio (2016), che accoglie i visitatori
negli spazi della biglietteria. Sempre al piano terra, è stato allestito uno spazio di
approfondimento in cui sono presenti alcuni lavori dell’artista.
Nell’ambito di Progetto XXI, tra le azioni della Fondazione Donnaregina per le arti
contemporanee, è stata realizzata in collaborazione con Fondazione Morra Greco la
mostra Jimmie Durham: And Now, So Far In The Future That No One Will Recognize Any
Of My Jokes,, a cura di Salvatore Lacagnina. Una narrazione obliqua del lavoro
artistico, del pensiero e dell’attivismo politico di Durham, delle sue letture, delle sue
attitudini, delle sue posizioni, che comprende sculture – dalla Collezione della Fondazione
Morra Greco – scritti, oggetti, grafiche, fotografie, libri, video, documenti.
Le opere di Durham sono state presentate a Documenta (1992, 2012, 2022), alla Biennale
di Whitney (1993, 2003, 2014), alla Biennale di Venezia (1999, 2001, 2003, 2005, 2013,
2019), dove nel 2019 ha ricevuto il Leone d'oro alla carriera. Visitando regolarmente Roma
dal 2007, ha tenuto presentazioni personali e indagini in istituzioni italiane come il MAXXI,
il MACRO e la Fondazione Querini Stampalia. Dal 2012 Durham ha iniziato a trascorrere più
tempo a Napoli, città in cui ha sviluppato forti relazioni e presentato diversi progetti
importanti in collaborazione con la Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee /
museo Madre e la Fondazione Morra Greco, tra cui "Jimmie Durham" (2008), presso la
Chiesa Donnaregina Vecchia, e "Wood, stone and friends" (2012-2013) a Palazzo Reale,
nell'ambito del programma della Fondazione Donnaregina Progetto XXI. Nel 2017 il museo
Madre ha conferito a Jimmie Durham il "Matronato alla carriera".
Artista, poeta, performer, saggista e attivista, Jimmie Durham (1940-2021) è una figura
unica nella storia dell'arte internazionale dell'ultimo mezzo secolo. Il suo lavoro affronta i
fondamenti della cultura europea e nordamericana, decostruendo idee e categorie
consolidate. Questa prima mostra retrospettiva in Italia presenta oltre 150 opere, alcune
delle quali mai esposte. Crea collegamenti tra periodi temporali all'interno di sequenze
tematiche, combinando elementi cronologici con un approccio narrativo, includendo
riferimenti a mostre storiche che racchiudono gli esperimenti da lui condotti sulle strategie
spaziali.
Nel corso di una carriera di oltre cinquant'anni, Durham ha dedicato la sua pratica alla
decodifica critica delle immagini e dei simboli naturalizzati che sono alla base dei sistemi culturali dominanti. Le sue opere, caratterizzate da una forte vena umoristica, spaziano tra
sculture, video, poesie, performance, installazioni, dipinti, disegni, collage, stampe e saggi.
Costruendo “combinazioni illegali con oggetti rifiutati”, attraverso materiali naturali e
industriali, Durham ha generato rotture all'interno delle convenzioni del linguaggio e della
conoscenza. Jimmie Durham: Humanity is not a completed project è un omaggio a un
artista il cui lavoro proteiforme e stratificato è fondamentale per la comprensione dell'arte
contemporanea e dei suoi possibili futuri scenari. Il titolo, tratto da una stampa di Durham,
sottolinea il suo progetto di relativizzare, come culturalmente specifiche, le nozioni
universalizzanti e teleologiche dell'essere umano, caratteristiche della modernità europea.
Un prologo alla mostra gravita attorno alla grande opera scultorea di Durham, Gilgamesh
(1993), e a uno dei suoi ultimi lavori, Tree (2021). L'epopea di Gilgameš occupa un posto
importante nell'indagine dell'artista sulla nozione di una separazione originaria tra cultura
e natura: “È la storia della prima città, Uruk, e della prima scrittura. Il principe Gilgameš
abbatté la foresta, costruì un muro e ciò che c'era dentro era la città. Poi iniziò a
raccontare questa storia per iscritto provando che si trattava effettivamente di una città.
Ha creato una verità: ha inventato una città e una verità allo stesso tempo”. L’antica storia
della nascita della città, con la contestuale distruzione della foresta, diventa una parabola
delle origini della civiltà. La narrazione è stata decodificata da iscrizioni in una tavoletta
d'argilla. Nel Gilgamesh di Durham, la fondazione di Uruk e la creazione di un muro che
separa l'umanità dal resto della natura sono legate all'atto violento di conficcare un'ascia
di metallo in una gigantesca porta di legno. La violenza insita in molte tecnologie legate a
un'idea dell’arco di avanzamento della civiltà umana è sottolineata in A blessure par balle
(2007), che traccia una mappa della penetrazione dei proiettili della Seconda Guerra
Mondiale nella corteccia interna di un faggio caduto al confine tra Francia e Germania. Il
metallo è stato assorbito dall'albero nei pattern dei suoi anelli di crescita, il buco lasciato è
diventato un rifugio per insetti e funghi. Le creature che compongono Labyrinth elements
(2007) mettono insieme elementi metallici ritrovati e legno intagliato dallo stesso albero
morto, dando vita a una comunità di esseri ibridi.
La sequenza di apertura definisce la critica di Durham alle nozioni di autenticità, identità,
verità e nazione dentro a sistemi di consumo capitalista - “Veracity” e “Voracity”, si legge
su due delle sue prime insegne scultoree. Il suo retaggio familiare gli ha permesso di avere
un’attenzione particolare su questo argomento, ma ha rifiutato di essere etichettato o iscritto come Cherokee nelle liste tribali ufficiali stabilite dal governo federale degli Stati
Uniti, ed è stato critico nei confronti delle varie forme di ghettizzazione, romanticismo e
strumentalizzazione che possono facilmente accompagnare tale etichettatura, pur
rispettando le scelte altrui. Fu legato da un rapporto di amicizia ai grandi leader Cherokee
Robert Thomas e Gerald Wilkinson, anch'essi non iscritti, mentre un'altra amica di lunga
data, Wilma Mankiller, divenne capo della Nazione Cherokee. Dal 1969, mentre
frequentava la scuola d'arte a Ginevra, Durham ha fatto parte di una rete di pensatori e
attivisti coinvolti nei movimenti di liberazione del Terzo Mondo e degli indigeni, e nel 1973
è tornato negli USA per partecipare alle lotte per i diritti civili. Ha collaborato con il Central
Council of the American Indian Movement (AIM), contribuendo a fondare AIM: Women of
All Red Nation (WARN), e poi dal 1975, come direttore fondatore dell'International Indian
Treaty Council (IITC) presso le Nazioni Unite, ha lavorato all'integrazione nel diritto
internazionale della “Dichiarazione universale dei diritti dei popoli indigeni”. Nel 1979
Durham si dimette dall'AIM, esprimendo dubbi sulla sua autonomia politica, e si concentra
nuovamente sulla produzione artistica, pur dichiarando la sua intenzione di mantenere un
impegno nelle lotte in corso.
Nel 1983 ha pubblicato il suo primo compendio di poesie, Columbus Day: Poems,
Drawings and Stories about American Indian Life and Death in the Nineteen-Seventies, e
ha partecipato a mostre importanti alla Kenkeleba House, uno spazio indipendente nel
Lower East Side al centro di una scena artistica newyorkese alternativa degli anni Ottanta,
offrendo opportunità e impegno critico ad artisti non bianchi raramente invitati a esporre
nelle sedi tradizionali. Durham non si è mai sentito costretto a parlare solo in relazione a
una specifica identità; fin dai suoi primi lavori, ha criticato la costruzione di nozioni fisse di
identità e la loro strumentalizzazione nel discorso pubblico. Nella sua pratica artistica, ha
attinto alle sue esperienze di situazionismo e solidarietà per sviluppare i propri linguaggi
visivi e per affrontare questioni che emergono da contesti specifici ma che hanno rilevanza
in diverse geografie.
L’esposizione delle opere nella prima sala fa riferimento alle strategie spaziali sperimentali
di Durham in mostre nella prima parte del suo percorso, come ‘A certain lack of
coherence’ (Palais des Beaux Arts, Bruxelles, 1993) e ‘Original Re-Runs’ (Institute of
Contemporary Art, Londra, 1994), in cui l'artista ha creato allestimenti densi che
raccoglievano costellazioni di opere singole. La sensazione di sovrabbondanza che ne deriva ha creato nuove letture e messo in crisi interpretazioni univoche.
Ogni singola
opera genera molteplici significati: la scultura Armadillo (1991) mostra la fotografia di un
uomo in giacca e cravatta, Durham stesso, che minaccia un altro uomo con quella che
sembra essere una pistola ma che in realtà è la testa di un armadillo, un gioco di parole
visivo-linguistico. In A dead deer (1986), la colonna vertebrale dell'animale è sostituita da
un alberello, formando una vivace creatura ibrida che danza su un filo. Racoon (skunk)
(1989) mostra uno specchio rotto che restituisce lo sguardo dello spettatore, quello che
l'artista definisce un “trucco da quattro soldi”. Durham esplora in modo giocoso l'estetica
dell’“arte popolare”, messa in secondo piano nel discorso dell'arte moderna in Europa e in
Nord America. Queste opere sono state prodotte all'incirca nel periodo in cui l’“Indian Arts
and Crafts Act” è stato approvato per legge nel 1990 e ha iniziato a essere applicato negli
Stati Uniti, obbligando gli artisti delle Prime Nazioni a dimostrare di essere iscritti a una
tribù riconosciuta a livello federale per poter esporre e vendere opere che includessero
elementi relativi all'eredità indigena. Sebbene l'obiettivo dichiarato della legge fosse
quello di prevenire la falsificazione di prodotti artistici e artigianali, in realtà essa ha messo
in atto un processo di “autenticazione” e registrazione dell'identità nell'ambito dello
stesso sistema legale che ha espropriato e privatizzato le terre detenute collettivamente
da molte Prime Nazioni del Nord America. Durham si opponeva alla gestione degli affari
indigeni da parte del governo degli Stati Uniti; non fu iscritto e questo portò alla
cancellazione di diverse mostre negli Stati Uniti.
Fin dai suoi esordi, Durham ha elaborato un'analisi precisa dei processi attraverso i quali la
reificazione dell'identità serve gli interessi e le cooptazioni del capitalismo. Le installazioni,
On loan from the Museum of the American Indian (1985) e Museum of European
normality (2008, con Maria Thereza Alves), sono esempi chiave della mobilitazione critica
di Durham dei linguaggi dell'etnografia e della museologia come strategia per
interrompere ironicamente la loro applicazione di certezze riduttive e procedure
normalizzanti. Questa critica si era già cristallizzata e definita durante il suo periodo di
studio all'École des Beaux-Arts di Ginevra, a partire dal 1969. In quell'occasione ha
confrontato le sue precedenti osservazioni sulle narrazioni dell'identità nazionale e
"minoritaria", dell'indigeneità e dell'autenticità negli Stati Uniti con uno studio sulla
"Swissness" nel contesto della moderna alienazione da un patrimonio culturale di lunga
data, discutendo in particolare gli effetti dell'industria turistica sull'arte "popolare" svizzera
della fabbricazione delle maschere. La mostra presenta collage fotografici inediti, disegni e testi di un'opera presentata dall'artista per la sua laurea nel 1974, intitolata God's own
drunks.
Nella sua installazione del 1985, On loan from the Museum of the American Indian, qui
parzialmente ricostruita, Durham realizza un allestimento museale con oggetti trovati
etichettati come “sociofacts” (sociofatti) e “sciencefacts” (fatti scientifici) che
commentano in modo umoristico i quadri antropologici riduttivi imposti alle società
“indiane”. Un allestimento museografico più recente, intitolato Museum of European
normality, concepito da Durham in collaborazione con Maria Thereza Alves nel 2008,
presenta dati sociologici e morfologici, modelli migratori e materiali di vita quotidiana
costitutivi dell'identità europea, sottoponendo lo sguardo europeo alle sue stesse
modalità di esposizione “scientifica”. A Scottish conspiracy (2010) complica ulteriormente
le nozioni di “autenticità” culturale raccontando le storie intrecciate di importanti capi
Cherokee che discendono da coloni scozzesi del 1600 e di donne Cherokee. Come dice
Durham: “Questa divenne presto una situazione di colonizzazione interna. Gli indiani
scozzesi avevano schiavi africani ed erano piuttosto ricchi”.
La mostra traccia un parallelo tra la decostruzione di Durham dell’imperialismo europeo e
la sua indagine sulla rappresentazione dei primi popoli negli Stati Uniti. Così come il
termine “indiano d'America” è nato da un errore geografico dei coloni europei che hanno
collocato l’India nel Nord America, nell'opera The history of Europe (2012) si riferisce alle
masse geologiche esistenti del continente come “Eurasia” e narra eventi storici che
testimoniano come la grande “penisola” sia un’entità politica inventata. Le interruzioni che
l’artista fa delle grandi narrazioni storiche che hanno alimentato la creazione degli Stati
nazionali e delle Americhe evidenziano le complessità della storia indigena, con comunità
che sono state intrecciate, negli ultimi cinquecento anni, con quella degli europei.
Queste
testimonianze storiche sono racchiuse nelle sculture Malinche (1988-92), che si riferisce
alla storia di una donna mitizzata come traditrice del suo popolo per essere stata
interprete e amante del conquistador spagnolo Hernán Cortés, e The two Johns (1988),
che allude a due colonizzatori inglesi che hanno giocato un ruolo chiave nel plasmare la
leggenda di Pocahontas, un’altra donna indigena mitizzata per aver collaborato con i
coloni.
Le opere di Durham dedicate alle condizioni di lavoro e alla cooptazione di individui e
gruppi all'interno delle comunità che resistono allo sfruttamento, portano in primo piano
un’analisi della globalizzazione come processo di accumulo ed espropriazione. Tutto ciò è
stato inquadrato all'interno di una continua riflessione sulla modernità e sull'imperialismo
europeo, come si può ritrovare non solo in Malinche (1988-92), ma anche in Cortez (1991-
92); entrambe parlano di storie che rimangono taciute nelle narrazioni dell'Età dell'Oro e
della Rivoluzione Industriale. Durham ha anche sottolineato l'oppressione delle donne e
l'estrazione del lavoro riproduttivo che ha permesso la creazione di condizioni di lavoro
industriali, come nel caso di Evidence (2016), una grande installazione concepita in
relazione alla caccia alle streghe europea nel Sedicesimo e Diciassettesimo secolo,
originariamente prodotta per la città tedesca di Goslar.
Nel 1994, dopo aver vissuto per un periodo a Cuernavaca, in Messico, Durham si è
trasferito definitivamente in Europa. Dopo aver lavorato inizialmente in Irlanda, Paesi
Bassi, Belgio e Francia, si è stabilito a Berlino dopo aver completato una residenza presso il
German Academic Exchange Service (DAAD) nel 1998. Le sue esplorazioni delle relazioni
tra architettura, testo e dogma religioso sono andate di pari passo con le sue critiche ai
media e ai generi consolidati dell'arte europea. La mostra “Architexture”, allestita alla
Galerie Micheline Szwajcer di Anversa nel 1994, mette in luce una linea di indagine
dell'artista particolarmente importante a partire da questo periodo, che riguarda il
rapporto tra architettura, ideologia e testo. Il neologismo "architexture" è stato coniato da
Durham unendo le parole architettura e testo, fondamentali per la definizione della civiltà
europea, essendo servite a legittimare e rafforzare il potere politico, nonché a perpetuare
il dogma religioso. Durham continuò a sovvertire il dominio e la monumentalità dell'arte e
dell'architettura sacra e profana nei decenni successivi, creando ad esempio il suo Arc de
Triomphe for personal use. Questa retrospettiva ricrea alcune strategie spaziali di
“Architexture”, attraverso la costellazione di opere The French Guy (1994), Garçon, garou,
gargouille (1994), Paradigm for an arch (1994), così come un intervento architettonico con
una trave di legno abbassata.
L'esplorazione di Durham della semiotica dell'architettura procedeva parallelamente a una
critica dei media e dei generi dell’arte europei storicamente consolidati. Osservando le
forme codificate della scultura europea, ha iniziato a unire il metallo con la roccia come
critica all'uso violento di strumenti di scultura in metallo su blocchi di marmo o di altre pietre. Nel 1997 a Viafarini, Milano, nell'ambito di un workshop intitolato Invitation to a
pointless investigation, distrugge una lattina di salsa di pomodoro con un sasso, creando
uno schizzo rosso. È qui che nasce la sua esplorazione dell'uso della pietra per trasformare
altri materiali, come nella lunga performance Smashing del 2004, e soprattutto attraverso
la distruzione di una serie di veicoli con grandi rocce, iniziata alla Biennale di Sydney nello
stesso anno. Durham intendeva l'arte come una forma di indagine. Sfidava l'arte con l'antiarte per metterne in discussione le definizioni circostanziali e consensuali e alludeva a
certe opere e figure della storia dell'arte europea e nordamericana (come Marcel
Duchamp, Constantin Brancusi, Luciano Fabro e Réné Magritte). Il suo approccio spesso
umoristico e affettuoso gli ha permesso di evitare critiche dirette o moralismi. In uno dei
suoi saggi scriveva: "Voglio che tutta l'arte sia politica", riferendosi al potenziale dell'arte di
riunire posizioni diverse e di mettere in discussione le convinzioni esistenti.
Durham si è autodefinito un “materialista”. La materia costituiva un fattore generativo nel
suo fare arte; la raccolta e l'osservazione di elementi materiali erano lo stimolo per diverse
linee di riflessione. Una delle premesse della poetica di Durham era la trasformazione della
materia in una liberazione catartica dalle associazioni culturali e dalla funzionalità imposta.
Nel tentativo di aggirare i consueti assetti interpretativi degli oggetti, egli richiamava
spesso l'attenzione su contesti particolari, immaginando e raccontando le storie
dell'oggetto all'interno di questi ultimi. La pietra e il legno diventano complici privilegiati di
questo processo. Nell'opera The piece of wood (2005), viene tessuta una trama epica che
viaggia dai pressi del confine sloveno-croato nel 1890 fino alla spiaggia del Lido di Venezia
nel 2005, dove un pezzo di legno alla deriva arriva nelle mani dell'artista. Il processo
artistico di Durham sibasa sulla risposta a materiali recuperati, per svelare le storie e le
associazioni che essi portano con sé in particolari contesti. L'artista assembla e riassembla,
dichiarando: “Non si può distruggere la materia, si può eliminare la sua funzionalità, la sua
forma”. La caratteristica qualità grezza e incompiuta delle opere di Durham dà priorità al
processo, costituendo al contempo una continua decostruzione dei generi e dei mezzi
artistici europei e nordamericani. Secondo l'artista: “Il materiale è fondamentalmente
innocente, sono i nostri modi di fare le cose che sono così folli e strani”.
La pratica di Durham costituisce una forma di ricerca epistemologica che stabilisce un
dialogo metodologico tra linguaggio e materia. Le sue opere sono costruite attraverso
ponti in cui scienza e ricerca artistica si incontrano: The Aharonov-Bohm effect (1989) testimonia il suo precoce interesse per la fisica delle particelle, uno studio che compare
nelle successive litografie Untitled (Muon) (2003) e Untitled (Surface) (2003), che
visualizzano particelle elementari la cui esistenza è stata ipotizzata negli scritti scientifici:
“Il mio lavoro si basa sull'idea di scienza come curiosità, come nuovo modo di vedere le
cose, indagine senza preconcetti che porta al cambiamento e all'innovazione. Questo è il
significato di scienza per me: la mancanza di idee predefinite, l'accettazione della scoperta,
una visione inaspettata della realtà. Questa percezione della ricerca scientifica è
importante per me”. Un articolo che ha ritagliato da Nature (2021), esposto accanto al
lavoro incompiuto (Cast turtle head) (2021), parla di come il comportamento dei muoni
nei campi magnetici abbia recentemente rivoluzionato teorie consolidate. Il suo approccio
investigativo all'arte scandaglia le profondità degli studi di diverse discipline sulla
composizione della materia, oltre a svelare le associazioni sensoriali e narrative degli
elementi materiali. Come sempre, l’artista mette in discussione le idee e le pratiche
ricevute: “Voglio che sia investigativo, e quindi non ‘impressionante’, non credibile”. La
passione per la scienza, e in particolare per la fisica teorica, si esprime in molte opere,
come nella sua ultima antologia di poesie, Particle Word Theory (2020).
Le parole hanno un ruolo predominante nel lavoro di Durham. Sono integrate come segni
sotto forma di titoli, didascalie e in molti altri modi. Combinando oggetto e linguaggio,
l'artista crea un paradigma estetico basato sul significato delle parole e sulle loro
deviazioni. È un linguaggio poetico aperto al movimento, che riflette, analizza, tormenta, si
interroga e si esibisce. Come egliafferma in Particle word theory (2020), “se la poesia ha
un'essenza, è che cideve essere qualcuno che usa il linguaggio in modo importante per il
senso del linguaggio. Non si tratta di comunicazione, non di ritmo, né di rime. Ma usare il
linguaggio nel senso dell'importanza del linguaggio”. La ricerca artistica, secondo Durham,
è un mezzo per essere più vicini al mondo.
La mostra culmina in un’esplorazione dei processi investigativi di Durham e della sua
attenzione ai materiali, compreso il suo amore profondamente giocoso per il linguaggio. Le
parole occupano un posto predominante in tutto il suo lavoro, sia nella poesia e nella
performance, sia integrate visibilmente in titoli e interventi testuali. Ha creato una nuova
semantica dell'estetica, giocando con il détournement di significati, suoni e iscrizioni in
linguaggi poetici in movimento costante. La pratica di Durham mostra come l’arte può
creare nuove metodologie, combinando linguaggio e materia per stabilire un dialogo sperimentale. L'arte non era diversa dalla scienza nell'approccio dell'artista all'indagine
sulla composizione della materia e sui limiti della conoscenza. Attraverso la sua profonda
sensibilità per i materiali e il linguaggio, l'incessante messa in discussione dei principi primi
e le strategie sviluppate di assemblaggio poetico e di articolazione spaziale, Durham ha
offerto percorsi per uscire dall'impasse contemporanea delle nozioni e delle categorie di
pratica artistica riconosciute.
Informazioni utili per la visita
Orari: Lunedì, Mercoledì, Giovedì, Venerdì e Sabato
dalle 10.00 alle 19.30.
Domenica
dalle ore 10.00 alle ore 20.00.
La biglietteria chiude un’ora prima.
Biglietti: intero: € 8, ridotto €
4, ridotto gruppi prenotati € 4.00. Gratuito bambini fino a 6 anni.
Telefono: +39.081.19737254
E-mail: info@madrenapoli.it
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